Schiscetta collaborativa take away e food delivery on demand. Ecco le nuove applicazioni dell’economia della condivisione, quella sharing economy che ha partorito Uber, Airb&b, Blablacar (ma anche coworking, ovvero spazi di lavoro condivisi, e cohousing nel senso di coabitazioni solidali), oltre all’inarrestabile fenomeno del social eating. Proprio in questo solco, che da solo vale più di 7 milioni di euro, fioriscono nuove startup: Mamau ha esteso la pratica dell’homerestaurant e dell’ecommerce alla pausa pranzo e propone gavette e lunch box da ufficio con pasti preparati da cuochi casalinghi.
Gavette, lunch box e o-bentou, tutte le schiscette del mondo
In Giappone i portavivande sono un must: si chiamano o-bentou e racchiudono sushi, riso e zuppetta di miso. Nel mondo ne circolano alcuni di design e supertecnologici, dotati di pannello solare o di chiavetta usb. Negli anni Trenta i contenitori per il cibo usati dagli operai del Rockefeller center erano piccole scatole di cartone leggero: le ha immortalate in una foto icona il reporter Charles Clyde Ebbets: “Lunchtime atop a skyscraper” è il pranzo a sacco di 11 manovali, consumato su una trave senza protezione, appesa al cielo di New York. L’autore, un fotografo americano che dedicò la sua carriera a denunciare le condizioni di vita degli operai e dei lavoratori bambini. Durante la Grande Guerra le gavette militari contenevano le razioni giornaliere dei pasti, distribuite dal cuoco della truppa: erano in alluminio o in ferro, verdi o ” feldgrau” quelle tedesche, colore grigio campo. I soldati vi incidevano il proprio nome. E spesso la parola mamma.
I dabba indiani sul set e ad Harvard
Le donne di Mumbai preparano ogni giorno gustosi e speziati cestini (dabba) per i mariti in fabbrica. Una complessa organizzazione di fattorini, portatori di cibo, si occupa di recapitarli sul posto di lavoro. A loro si è ispirato il recente film indiano The Lunchbox (del regista Ritesh Batra): sullo schermo è l’occasione di una corrispondenza amorosa tra una donna e un uomo solo. Nella realtà, la fitta rete indiana di delivery (5000 addetti), che consegna 200mila pasti a piedi, in bicicletta, su carretti o in treno, è stata oggetto di studio dell’università di Harvard. Un sistema perfetto, a prove d’errore: 1 ogni 6 milioni di recapiti.

Mumbai, la consegna dei dabbawalas
Pausa pranzo con Mamau
Sul sito di Mamau il menù si prenota e si paga sul web, poi si ritira a casa dello chef. Ancora per poco, perché, come spiega la Ceo Michela Franco, «stiamo studiando una copertura capillare per le consegne a domicilio». L’esperimento è partito meno di un anno fa a Milano, ma piovono richieste da altre città: «Prima, però, vogliamo consolidarci in Lombardia, poi esporteremo il progetto». I fondatori della startup sono tre ingegneri e una psicologa: forniscono ai cuochi, selezionati per il servizio, il packaging necessario e, sulla piattaforma, mettono in vetrina le ricette: ai fornelli Milly, Micky, Anna, Sylvie (il 70% sono donne) preparano lasagne, involtini con piselli, gnocchi alla romana, ragù e risotto allo zafferano. Comfort food, direbbero gli americani, ideale in molti casi anche per risolvere una cena. Basta accordarsi.
In attesa di una normativa definitiva che regoli il social eating (la questione è arrivata in Parlamento), sia per le implicazioni fiscali, sia per quelle d’igiene e di concorrenza sleale verso chi ha regolari attività commerciali, Mamau garantisce qualità e sicurezza del cibo richiedendo il certificato Hccp: «Si è pronti a entrare nella nostra rete dopo aver seguito il corso, così come indicano le norme europee, e un’accurata ispezione delle cucine», spiega Michela Franco.
Foodracers, consegne su richiesta
Foodracers, invece, fondata a Treviso da Andrea Carturan, fa consegne alimentari on demand in quelle province che non sono coperte dai colossi del delivery, attivissimi nelle metropoli: è pronto a partire in 14 città italiane per servire tutto il territorio nazionale con una rete di autisti selezionati che garantiscono il servizio in tempi brevi e senza maggiorazione di prezzo, solo un piccolo contributo di consegna. E’ l’Uber del food. Tutto ruota intorno a una piattaforma online che mette in contatto l’utente che vuole ricevere a casa o in ufficio i piatti del proprio ristorante preferito con chi si rende disponibile per le consegne. Anche in questo caso si seleziona sul web il locale affiliato e il piatto desiderato. Grandi catene di ristorazione come Roadhouse Grill e BefeD hanno già sottoscritto rapporti di collaborazione a livello nazionale. L’ordine, eseguito tramite smartphone, tablet o pc, viene notificato istantaneamente ai racers disponibili.
Il trionfo del food delivery
E’ l’ennesimo trionfo del food delivery (Just Eat, Foodpanda, Delivery Hero), un mercato in continua crescita, grazie anche agli ingenti investimenti che attrae il settore: nel corso degli ultimi dodici mesi è stato nel mirino del venture capital. Più di un miliardo di dollari sono stati investiti nel 2014 e un ulteriore mezzo miliardo di dollari nel primo trimestre 2015. Nel mondo sono le specialità italiane a dominare le ordinazioni: in Australia è food made in Italy il 31% delle consegne a domicilio. Siamo i più gettonati anche in Germania, Spagna, Svezia, Polonia, Montenegro, Georgia e Austria.
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